Varsavia!
I pensieri di un moralizzatore
The channel (1)
(1) Il canale naturale

L'uomo è un essere davvero complicato. Apparentemente, non esiste affermazione che lo riguardi che sia tanto vera da essere vera del tutto. Ad esempio, io potrei dire che mi piace viaggiare. In realtà, solo il 95% circa del mio corpo concorda; resta un 5% che preferirebbe rimanere a casa e mantenere intatto lo status quo, un 5% renitente a ogni pur piccolo cambiamento di abitudini. Si tratta del mio intestino.
La stima, sia chiaro, è a buon peso, da prendere con beneficio dell'inventario; il mio è discorso qualitativo, non avendo avuto modo di approfondire il dettaglio quantitativo per mancanza di opportuni riferimenti bibliografici di anatomia. Lasciatemela passare e torniamo alla sostanza.
Nella maggior parte dei casi, la tacita protesta del 5% si manifesta in forma di sciopero bianco: cessazione di ogni manifestazione esterna di attività. Io, cioè l'altro 95% di me, resisto con calma anche tre o quattro giorni, poi mi lascio andare, mi innervosisco e mi lagno.
La Polonia ha avuto, sull'organo di cui sopra, effetto opposto al consueto. Sono rimasto un po' perplesso e ancora non ho capito, pur avendo avuto modo di riflettere sulla questione, se ciò sia derivato dal consumo massiccio di succo di mela oppure dal white coffee che, storcendo la bocca, ho mandato giù almeno tre volte al dì.
Parliamo dunque del caffè. Qui lo preparano così: un cucchiaino di Nescafè in una tazza da tè. Al brodo nero viene quindi aggiunto latte in polvere o, se si è fortunati, latte vero, e zucchero bianco. Avevo verificato in precedenti occasioni che la pozione infernale mi risulta meno nauseante se sostituisco, a quello bianco, lo zucchero di canna, ma a Varsavia non si usa tanto.
Per restare sul tema, porto una testimonianza che vorrei condividere con i lettori: non è confermata l'esistenza della ricetta della ben nota Osteria numero tre, in cui la Polacca fa il caffé. Secondo l'anonimo autore, il caffé alla polacca dovrebbe contenere peluzzi intimi, presumibilmente ricci. Non ne ho mai trovati, ma non per questo sono rimasto soddisfatto.
Mi trattengo ancora sul caffè, scivolando sul personale. Per me il caffé è elemento, e non propriamente alimento, centrale della vita. Ovviamente, parlo del caffé come lo intende il popolo eletto dei napoletani: di quello che scorre in cupe stille nei racconti di Annamaria Ortese, non della risciacquatura di chicchi che si consuma un po' dappertutto nel mondo. Quando partivo, fino a qualche anno fa, soffrivo molto e non trovavo pace nemmeno portando con me una irragionevole scorta di Pocket Coffee, che peraltro comportano il notevole rischio di rompersi in valigia, o fondere, e macchiare tutto. Ora mi sono rassegnato e considero ciò come un effetto della maturità; ma resta il dubbio che l'attuale tolleranza derivi invece dalla triste e inevitabile abitudine al consumo dei caffé di cattiva qualità, presi ai distributori automatici durante le pause di lavoro.
C'è però, lo ammetto, caffé lungo e caffé lungo. I tedeschi, ad esempio, usano un'ottima miscela. I Polacchi, invece, hanno subito l'attacco frontale della Nestlè, che ha imposto qui ciò che zia Anna sceglieva liberamente, e cioè il caffé solubile. Sono rimasto sconcertato e, confesso, costernato, nel notare che tanti bar rechino l'insegna Nescafè sul varco di ingresso, come se questo dovesse essere, o almeno potesse sembrare, un elemento rassicurante. Quelle insegne, al contrario, mi danno la sensazione della fregatura multinazionale cui non ci si può sottrarre per mancanza di alternative.
Dopo questa lunga e necessaria divagazione alcaloide, è il caso di tornare alla questione intestinale. La prenderò di pancia ma, nello stile che è proprio di queste pagine, volando alto e restando sul piano filosofico, socioculturale ed etnico.
Dalla notte dei tempi, il bruto si pose gli stessi problemi esistenziali che ancora ci toccano profondamente e, se possiamo dire così, intimamente: "Da dove veniamo? Dove andiamo? Come ci puliamo?" Mi soffermerò per il momento proprio su quest'ultimo interrogativo, portando il mio contributo esperenziale alla discussione.
Vengo al punto: citerò un elemento che, credo, sconcerti ogni Italiano che abbia la ventura di trovarsi fuori porta. Non c'è albergo, per quanto elegante (lo dico per sentito dire: io non frequento alberghi eleganti), che metta a disposizione dei clienti, per esprimermi come Roberto Benigni, "l'opportuna invenzione di Monsieur Bidet". La frase, lo ricordo per gli appassionati di servizi igienici, è pronunciata dallo zio Eliseo, interpretato dal bravo Giustino Durano, nel film La vita è bella. Sempre per gli appassionati di servizi: escludo dal conto gli hotel giapponesi di pregio che, pur non avendo mai visitato, mi risultano forniti di gadget computerizzati e robotizzati, progettati, pare, per la soddisfazione della clientela più esigente. "E' uno sporco lavoro", si diceva un tempo, "ma qualcuno deve pur farlo". Bene, il Sol Levante prefigura un futuro radioso in cui il lavoro sporco lo faranno i robot.
Torniamo a Bidet. Ho dedicato alcuni sforzi al tentativo di capire se il personaggio sia reale o mitologico. Le fonti, purtroppo, sembrano propendere per la seconda ipotesi. La tradizione riportata con maggior frequenza indicherebbe l'origine del nome nel termine francese bidet, che starebbe per pony; ciò perché sui primi bidet ci si metteva a cavalcioni come su un piccolo cavallo. Per quanto trovi l'argomento particolarmente interessante, non mi addentrerò qui nella discussione di quale debba essere la corretta postura durante l'uso dell'attrezzo; esistono almeno due scuole di pensiero, ma non mi è dato escludere che la fantasia degli uomini e delle donne non abbia generato varianti minori. Rimando dunque il lettore interessato alla letteratura specializzata e riprendo il filo del ragionamento.
Sappiamo come Omero viva un po' nella storia e un po' nella leggenda, eppur tuttavia se ne parla come di persona certamente esistita. Io mi prenderò la licenza di fare lo stesso per Bidet perché, nonostante ogni evidenza, mi piace immaginare vivo e reale il grande uomo che per primo si applicò al problema di come coronare al meglio i momenti nei quali è più forte la nostra soddisfazione di libertà.
Grande destino, il suo: ci resta accanto tutte le volte che andiamo in bagno a casa nostra, in Patria, e a lui ci rivolgiamo prima di tornar più lieti ai nostri intenti. Se l'immaginiamo riferita all'uomo, la pur consueta espressione "mi faccio il Bidet" non appare purtroppo felice; ma la lingua in uso a volte snatura il significato letterale e si veste di colorite locuzioni, intraducibili alla lettera.
Allarghiamo il discorso. L'altrettanto mitico inventore dello sciacquone non ha avuto la fortuna di Bidet. L'attribuzione dell'invenzione a Leonardo sembra leggenda metropolitana, magari nata dal film di Troisi Non ci resta che piangere. Comunque, su un tema così cogente s'è scatenato lo sciovinismo dei popoli. Tradizioni anglosassoni, ad esempio, vorrebbero in Sir John Harrington, figlio naturale della Regina Elizabeth I, l'inventore del water closet dotato di dispositivo di scarico; ma anche questa figura resta avvolta nel mistero. Insomma, chiunque sia il genio, a torto non lo ricordiamo ogni giorno con la dovuta riconoscenza.
Sorte simile a Bidet mi sembrava fosse toccata a John Montagu, Conte di Sandwich, Ministro della Corona Britannica, sponsor del viaggio che portò il Capitano Cook a scoprire le isole Hawaii, che furono allora chiamate Isole Sandwich. Grande giocatore d'azzardo, secondo la leggenda non si alzò dal tavolo per 24 ore e si sostenne mangiando sandwiches. Non credevo che il baronetto inglese fosse stato il vero inventore del tramezzino, ma mi sbagliavo: l'attribuzione è accreditata da fonti storiche. Il nome tramezzino, per inciso, si deve a Gabriele D'Annunzio, il quale lo propose in sostituzione di sandwich; a quei tempi gli anglicismi non erano graditi.
Vengo alle mie conclusioni. Bidet e Sandwich sono passati entrambi alla storia in modo curioso, ma resta tra i due una differenza non da poco, che favorisce l'impettito Baronetto inglese a tutto vantaggio della dignità britannica. Se infatti è giusto dire che abbiamo spesso in bocca il nome di Sandwich, è altrettanto corretto affermare che, più di frequente, accostiamo altrove quello di Bidet.
Negli alberghi mancano dunque i bidet, ma si trovano per fortuna docce confortevoli. Il secondo giorno, in Polonia, io ho fatto quattro docce.
Una questione di fiducia

"Dear guest, can you imagine how many tons of towels are uselessly washed every day in hotels all over the world and the enormous quantity of cleansing agents that pollute the water?" (Caro ospite, puoi immaginare quante tonnellate di asciugamani si lavano inutilmente negli alberghi di tutto il mondo e l'enorme quantità di detersivi che inquinano le acque?)
Anche nel mio hotel ho trovato questo cartello in bagno. Il messaggio invita, prospettando un concreto contributo per la difesa dell'ambiente, a separare gli asciugamani usati da quelli puliti; ma il vantaggio per la natura è irrisorio, mentre è ben chiaro quello per l'albergatore.
Non essendo sempre l'uomo predisposto a far dispetti, può talvolta decidere di venire incontro con benevolenza alla richiesta, sebbene presentata in modo tanto capzioso. Dunque immagino che tanti, come me, abbiano provato per una volta a seguire le istruzioni, che sono invero molto semplici: gli asciugamani usati, nella doccia; quelli puliti, sul portasciugamani.
Non so come sia andata agli altri. A me è andata così. Il primo giorno ho messo diligentemente alcuni asciugamani nella doccia e a sera li ho trovati sostituiti da altri puliti. Forte di questo successo, il giorno seguente li ho poggiati tutti nella doccia, perché tutti erano stati usati. Tornato a sera, li ho ritrovati dove li avevo lasciati e, come se non bastasse, si erano anche inzuppati. Non sono riuscito nemmeno ad ottenerne altri, perché a quell'ora mancava il personale di servizio.
Da allora sono molto più prudente e non seguo più l'avviso proditorio. Con buona pace degli ambientalisti, lascio gli asciugamani dove sono e aspetto gli eventi.
Filosofia del linguaggio e matematica attuariale

Il primo giorno, quando ti ho incontrata,
fu di frasi graziose e delicate;
il secondo mi sono innamorato
e ho alternato parole e battiti del cuore.
Il terzo giorno, che aspetto qui seduto,
il terzo giorno, sarà quello più vero.
Anche io, alla soglia del terzo giorno, ero seduto a riflettere. Non so dove si fosse accomodato il romantico protagonista della poesia; io ero seduto in bagno. Mentre aspettavo gli eventi, ho messo giù lo schema del libro che Tu, caro lettore, hai in mano (questa frase puzza di Calvino; tanto vale confessarlo subito, perché so che sarei comunque sgamato da Roberto, che ne conosce bene lo stile e le opere. Acqua in bocca, vado avanti).
Nel momento in cui Tu leggerai, avrò completato la scrittura che avevo progettato e che sto realizzando. Vorrei dare qualche ragguaglio sulla questione; ma mentre scrivo sono preso da un pizzico di panico: come farà quello che avrò scritto a spiegarti come è stato scritto, visto che mentre scrivo ancora non è stato scritto? Può un testo descrivere se stesso, senza contraddire fondamentali principi di coerenza interna? Non fa mai male, in un'opera di un certo livello, invocare il teorema di Gödel sulla coerenza dei metalinguaggi; non si rischia molto, visto che sono in pochi a conoscerlo, e nessuno (me compreso) lo mai ha capito.
Completata la seduta di meditazione, sono stato riportato bruscamente alla realtà. Dopo aver fatto la doccia, mi sono cambiato le mutande; ma mi sono reso conto di dover usare una cautela, che le impreviste circostanze stavano rendendo indispensabile. Mi era rimasto un numero congruo, ma non illimitato, di slip puliti.
Ho dovuto riscoprire il ragioniere (o meglio, la formichina saggia) che è in me e lesinare sul cambio a ufo, per non trovarmi alla fine con le spalle al muro; o forse dovrei dire alla napoletana: con le pacche nell'acqua.
Gas per uso bellico

Dall'impostazione generale e dal rigore scientifico cui è improntata, risulta ormai chiaro a tutti che quest'opera tratta di questioni di Fisica Generale. A questo punto del capitolo dedicato alla fluidodinamica avrei dunque voluto introdurre qualche nota sui gas, ispirata da Varsavia. Non mi sarebbe mancato lo spunto se fossi venuto qui in primavera; magari avrei avvertito nell'aria qualche dolce nota floreale perché, come dice il poeta:
Zephiro torna, e il bel tempo rimena,
e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia.
Non ho invece avuto la fortuna di incontrare il venticello di Zefiro. D'altra parte, non ho neanche lamentato odori fastidiosi o inquinamento pesante, perché le auto non opprimono troppo il centro della città.
Mi sono allora rivolto alla storia. Scartabellando, ho trovato il racconto di un bombardamento di Varsavia effettuato nel 1914. Non è un granché, ma almeno il gas c'entra, perché in quell'occasione l'aviazione tedesca fece ricorso ai dirigibili. I Tedeschi, in fretta e furia, avevano adattato agli scopi militari i giganteschi Zeppelin, che già da anni facevano regolare servizio di linea tra le città della Germania.
Un dirigibile può sembrare un facile bersaglio per l'artiglieria. Invece, i normali proiettili non danneggiavano troppo gli Zeppelin perché erano costituiti da un grande numero di celle, un po' come i materassini gonfiabili che si usano a mare.
Apro un inciso per fisici, e solo per loro: calcolare il tempo di efflusso dell'idrogeno da una celletta forata non è molto facile. Non ci si lasci ingannare dal paragone con un comune palloncino; un dirigibile è gonfiato a bassissima pressione e il meccanismo di fuoriuscita è attivato principalmente dalla convezione (se il foro è in alto, perché l'idrogeno possa salire) o dalla diffusione, se il foro è in basso. In ogni caso, si tratta di processi lenti.
Ad ogni buon conto, i dirigibili contenevano un volume di gas enorme, sicché nemmeno la presenza di molti fori ne determinava un rapido svuotamento: potevano essere colpiti anche decine di volte senza essere abbattuti. Avevano però molti svantaggi. Erano lenti, non potevano trasportare grandi carichi di bombe ed erano gonfiati con l'idrogeno, un gas estremamente infiammabile. Gli Inglesi e i Francesi se ne resero conto dopo le incursioni su Londra e Parigi; si dotarono di proiettili incendiari e così segnarono il destino di questi giganti dell'aria nella I Guerra Mondiale.
Alla fine del conflitto, i dirigibili ebbero ancora un notevole sviluppo, soprattutto grazie all'introduzione di motori più leggeri e potenti. Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Italia costruirono propri dirigibili. È rimasto memorabile il primo viaggio di Umberto Nobile, che sul Norge sorvolò il Polo nord; la seconda spedizione, sul dirigibile Italia, fu invece un disastro nel quale perirono molti membri dell'equipaggio.
La fine dei dirigibili come mezzi di trasporto civile fu segnata nel 1937 dal disastro dell'Hindenburg, un dirigibile tedesco che si incendiò atterrando nel New Jersey dopo un volo transoceanico, determinando la morte di tutti i passeggeri. Quasi un secolo dopo, gli Zeppelin sono un ricordo lontano e vediamo raramente nel cielo qualche dirigibile usato come gigantesco cartellone pubblicitario, oppure per effettuare riprese televisive.
I gas, invece, sono stati usati ancora molte volte nelle guerre. Non più l'idrogeno per gonfiare i palloni, ma i gas urticanti, soffocanti o nervini. Questi ultimi provocano la paralisi e poi la morte di chi ne inspira anche piccole quantità. Il famoso insetticida DDT, che oggi è vietato, è un gas nervino che colpisce gli insetti, ma è dannoso anche per l'uomo perché si accumula nell'organismo e non può essere metabolizzato. Poco importa: la scoperta del DDT valse il premio Nobel allo svizzero Muller nel 1948.
Vorrei però lasciare i fatti tristi; dirò dunque due parole sull'uso dei gas nelle operazioni condotte in estate, in vacanza a Maratea. Non c'entrano niente con la Polonia, ma potrebbero ugualmente entrare nella Storia.
Facendo le veci di un Commissario delle Nazioni Unite, mi è toccato spesso, in qualità di addetto alla lavanderia, smantellare notevoli quantitativi di armi di distruzione di massa; erano armi batteriologiche, estremamente virulente, seminate come mine antiuomo nella camera dei ragazzi. Rappresentavano un pericolo serio e subdolo, perché erano dissimulate: a prima vista, potevano sembrare oggetti innocui, come calzini o altra biancheria, ed invece erano ordigni micidiali.
Nonostante i ripetuti richiami alle norme umanitarie della Convenzione di Ginevra, mio nipote Leonardo, con Roberto e Marco, hanno continuato l'uso indiscriminato di materiale bellico messo al bando.
Se sono riuscito con qualche sforzo ad arginare la guerra biologica, mi sono dovuto arrendere di fronte all'esplosione della guerra chimica. Non ho potuto distruggere gli stabilimenti nei quali si producevano i gas velenosi che rumorosamente venivano liberati nell'aria durante le notti insonni. Gli effetti sono stati devastanti.